MILAN VAN BASTEN - Marco Van Basten, leggendario ex attaccante del Milan, ha rilasciato un'intervista a 7, l’inserto del Corriere della Sera in edicola domani. L'olandese ha parlato del suo passato in rossonero, di Sacchi e di Zlatan Ibrahimovic.
"A Milano mi sentivo come se fossi parte della famiglia. Insieme abbiamo vissuto una vita intera. Mi avete visto nascere, come giocatore e come uomo. Mi avete visto crescere. E purtroppo avete visto la mia fine. Ero convinto che sarei durato per sempre, dicevo ai miei compagni che avrei smesso a 38 anni. All’inizio non capivo. Ero troppo concentrato sul mio stare male.Mi chiedevo perché quella sofferenza dovesse toccare proprio a me. Non ho mai avuto una risposta".
"Non c’è mai stato feeling personale tra me e lui. Non mi ha mai dato l’impressione di essere onesto nei rapporti umani. Quando non era contento di come ci allenavamo, se la prendeva con i giovani, con i più deboli, che magari invece erano in testa a tirare il gruppo".
"Tornai all’Ajax da allenatore e un ragazzo mi provocò. Sei Van Basten, mi disse passandomi la palla, fammi vedere cosa sai fare. Ma io ormai non potevo più muovere la caviglia. Chi era? Sono sicuro che lo conoscete. Si chiamava Zlatan, di cognome Ibrahimovic".
"Il 22 dicembre 1992 è stata la fine dei miei sogni. Stavo giocando da Dio, avevo un allenatore che mi piaceva, Fabio Capello. Mi fa male la caviglia, decido di operarmi. L’errore che segna la mia vita. Rimpianto di non aver ascoltato i dottori del Milan? Lei non può immaginare quanto l’ho rimpianto. Ogni mattina, per almeno i vent’anni seguenti. Il primo pensiero al risveglio è sempre stato quello. Non mi fidai di loro. Pensavo che stessero parlando nell’interesse della società".
"Mi dispiace, e molto. Ma un grande club deve avere lo stadio di proprietà. Oggi funziona così".
"Era tutto triste. Erano tristi gli sguardi dei miei ex compagni, che cercai di incrociare il meno possibile, perché mi ero promesso di non piangere. Non fu una festa. C’era tristezza ovunque. Quella del pubblico, e la mia. Correvo, perché non volevo far vedere che zoppicavo, battevo le mani alla gente. E intanto pensavo che non c’ero già più, mi sembrava di essere ospite del mio funerale".